jueves, 18 de septiembre de 2014

TRAS LA TRAGEDIA EN EL LICEO LUSSANA (BG) ES TIEMPO DE CALLAR Y REFLEXIONAR



 
Due giorni dopo il (tentato) suicidio dello Studente 17enne al Liceo Lussana, le riflessioni di un mio caro ex-alunno, Filippo O., di Redazione Altro, in questa lettera aperta:

- Quando lunedì mattina mi sono svegliato e ho trovato i messaggi dei miei compagni, quando ho realizzato l’accaduto, mi è sembrato di tornare lì, in Italia, nelle aule della mia Scuola, il Liceo Lussana, tra quelle sedie così familiari. Sono negli Stati Uniti, nel Mississipi, a trascorrere il mio quarto anno di Liceo in una high-school, ma in quel momento nulla mi impediva di sentirmi vicino a voi e di ragionare come voi. Il flusso emotivo è stato più o meno quello che avete avuto voi, probabilmente meno intenso a causa della distanza, sebbene ognuno di noi reagisca in modo molto differente. Nelle prossime righe troverete mille contraddizioni e per questo mi scuso: se deciderete di classificare questa lettera come un testo intriso di ipocrisia, non vi biasimo… Forse queste righe sono frutto di emozioni non ancora decantate e per questo, probabilmente, risulteranno un concentrato di incoerenza. Chiedo nuovamente perdono.
Premesso ciò, non voglio annoiarvi con inopportuni giri di parole e vado dritto al punto. Sono seriamente convinto che, davanti a un fatto del genere, ogni tipo di illazione, di ipotesi o di supposizione sia del tutto inutile. Ci troviamo di fronte a un episodio gigantesco e vicinissimo a noi Studenti, soprattutto ai Lussaniani. La grandezza di questo gesto ci spaventa, ci rende minuscoli, sentiamo il peso della vita, o meglio, della morte. Tutto ad un tratto la realtà sbiadisce e perde di significato. La reazione che ogni essere umano dovrebbe avere è quella di cercare un rifugio. Come un bambino che ha paura del buio va dalla sua mamma, allo stesso modo noi ci stringiamo l’un l’altro alla ricerca di una sicurezza che non arriverà mai. Vediamo quell’impenetrabile buio di fronte a noi e, nella nostra piccolezza, ci rassicuriamo a vicenda, scambiandoci pensieri, parole,opinioni. Ho riflettuto a lungo prima di riuscire a scrivere questa cosa: al contrario di quello che siamo portati a fare secondo un impulso naturale, credo che faremmo meglio a tacere. Abbiamo il grande dono di poter pensare e dovremmo sfruttarlo. Troppe frasi sono state sputate in preda all’emozione, troppe opinioni senza significato sono state scambiate tanto pour parler. Accolgo con piacere la notizia che alcuni Professori, il giorno stesso, si siano incaricati spontaneamente di parlare agli Studenti. Compito arduo, ma il coraggio non è mancato. Non provo la stessa soddisfazione quando ascolto i discorsi dei miei coetanei, costantemente impegnati nel discorrere di argomenti a loro ignoti. Anzi, provo una sensazione di disagio nel leggere le loro supposizioni e mi chiedo: “Perché non si fermano un secondo? Perché sono così coinvolti da non rendersi conto che questa non è riflessione?”. Basterebbe riporre il cellulare sul comodino per una mezz’oretta, sdraiarsi sul letto, guardare il soffitto e pensare. Ponderare le proprie emozioni, guardare in faccia la realtà, tacere per un momento. Non si sa mai che le emozioni diventino qualcosa di duraturo, che costituisca le fondamenta di un pensiero più elaborato, invece di tante, troppe frasi rivolte al vento. Questo è solo un consiglio che rivolgo a voi Tutti, Amici e Compagni del Liceo Lussana.
Ma ciò che più mi ha scosso, oltre alla notizia in sé, è stata la lettera, inviata da un anonimo Docente del Liceo alla redazione di BergamoNews (non mi soffermo sulla qualità delle notizie che questa testata suole pubblicare). Riporto qui il link all’articolo:

http://www.bergamonews.it/cronaca/lussana-quel-gesto-estremo-di-uno-studente-che-interroga-ognuno-di-noi-194836


(Lussana, cortile su via Foro Boario. Foto scattata a metà mattinata da El Afilao, quando sulla quella macchia ancora fresca è spuntato un cantiere recintato. Con tanto di betoniera e wc chimico)
Ora, non voglio in nessun modo criticare il gesto dell’anonima Professoressa, in quanto la sua lettera è paragonabile alla mia e non voglio risultare più incoerente di quello che già sono. Nonostante ciò, vi invito a riflettere sul contenuto di quest’ultima. La lettera è stata inviata a BergamoNews il giorno successivo all’episodio, ovvero neanche ventiquattro ore dopo. Un dato di fatto, perfettamente inserito nella nostra realtà contemporanea, caratterizzata dalla ipervelocità e dall’immediatezza. Forse fermarsi a pensare un po’ più a lungo sarebbe stato meglio, ma, ripeto, questo rimane solo un consiglio, non una critica.
Ma ciò che mi ha spinto a scrivere questo pezzo non è la rapidità con cui la lettera è pervenuta alla redazione del quotidiano online bergamasco, bensì è stata la rabbia. Sì, lo ammetto, rabbia. Rabbia che mi fa vergognare, poiché dovrei solo provare una profonda amarezza pensando al gesto dello Studente di 3U e alle sue condizioni attuali. Eppure non sono riuscito a trattenermi. In questa lettera – mi scuso se ho frainteso – la mia rabbia è scaturita dall’aver colto una certa presunzione, soprattutto nel paragrafo in cui l’autore imputa anche alla “rete” la responsabilità di questo gesto. Ma perché bisogna scadere nelle solite banalità? Mi rivolgo agli adulti, ai Professori: perdonate lo sfogo, ma non sopporto le persone che si ritengono esperte dell’impatto che internet ha sulla società, in particolare sui giovani. Non capisco perché credete di saperne così tanto. Chi ha a che fare con i social network e le loro insidie sono i vostri figli, non tanto voi. Ripeto, non è necessario salire in cattedra quando si parla di argomenti che non sempre possedete pienamente. In questo campo i vostri studenti, quelli che chiamate “i vostri ragazzi”, sono più competenti e coinvolti, perciò lasciateli parlare. Quando la lettera parla di maggiore ascolto, penso che raggiunga il massimo dell’incoerenza, quasi superiore alla mia, già difficile da battere: come potete parlare di ascolto, quando siete i primi a sparare a zero sulla realtà giovanile, senza nemmeno tentare di imparare da questa? Scendere dalla cattedra e porsi veramente dall’altra parte è difficile, faticoso, implica delle rinunce. Dei rischi. Non tutti ne sono capaci e sicuramente inviare una lettera a un giornale è più semplice, ma non risolve di certo la situazione. Provate sinceramente ad abbassarvi ad ascoltare cosa i giovani vogliono comunicare. La lettera si conclude auspicando il raggiungimento delle cosiddette “riforme”, ma l’autore non ha compreso che la vera riforma è porsi dall’altra parte della classe, sedersi in un banco insieme ai suoi Studenti, parlare e ascoltare davvero come tra pari, dimenticandosi chi ha una laurea e chi no. Come recentemente mi ha confessato un mio ex Professore in merito all’accaduto (rivolgendosi ai suoi Colleghi): “Devono ascoltarvi, farvi domande e alzare le antenne. Non ne avrete neanche voi di risposte, certo, ma all’intero corpo Docenti servirebbe ascoltare sul serio la vostra voce per capire che ancora c’è tanto da capire. Da conoscersi e imparare. Reciprocamente. Ecco perché quasi mai, anche quando ero nella vostra classe, mi siedo in cattedra, frontale rispetto a voi Studenti. Perché a volte, anche senza saperlo, “in cattedra” per me c’eravate voi”. La mia speranza è che facciate tesoro di queste parole, perché so che vengono dal cuore e dalla mente di un uomo che sa ascoltare. Non tutti sappiamo porgere l’orecchio e stare a sentire cosa gli altri hanno da dirci, io stesso faccio fatica a farlo.
Ho parlato di ascolto e vi faccio una proposta: fate pressione sui vostri Professori affinché vi dedichino del tempo, foss’anche un’ora al giorno, per parlare e per ascoltarvi. Decidete insieme le modalità, gli argomenti, le regole. Tentiamo, insieme, di ridurre la distanza tra Professori e Studenti, potrebbe essere uno strumento in più per prevenire tragici avvenimenti come quello accaduto lunedì.

F.O. 17/9/2014